Meditazioni 03 dicembre 2012
“Come pecora smarrita vado errando; cerca il tuo servo, perché non ho dimenticato i tuoi comandamenti”. Sant’Ambrogio usa le medesime parole del salmo per domandare al Signore di venire a cercare quella pecorella smarrita che è ciascuno di noi. Perché afferma sant’Ambrogio, “se tu ritardi, io mi smarrisco”. E questo non vale solo all’inizio del nostro cammino, ma dentro ogni istante del nostro cammino. Ecco allora la sua preghiera: “Veni, Domine Iesu / vieni, Signore Gesù, ad me veni / vieni a me, quaere me / cercami, inveni me / trovami, suscipe me / prendimi in braccio, porta me / portami”. Vieni Signore Gesù: è proprio il grido del povero di spirito, il grido di colui che tende tutto se stesso verso quello sguardo, che attende tutto da quello sguardo, che dipende in tutto da quello sguardo, dallo sguardo di Gesù. C’è qualcosa di più semplice e di più umano di questa domanda? C’è qualcosa di più adeguato al nostro bisogno? In un altro momento del suo Commento al salmo 118, sant’Ambrogio dice: “Tu sei il mio aiuto e il mio sostegno. Tu mi aiuti con la legge, tu mi prendi in braccio con la Grazia. Quelli che ha aiutato con la legge, li ha portati nella sua carne, perché è stato scritto: questi (Gesù) prende su di sé i nostri peccati e per questo (perché mi porta la sua Grazia) spero nella sua parola”. E Ambrogio continua, affermando in maniera acutissima e sublime: “È veramente bello che dica: «Ho sperato nella tua parola». Cioè: non ho sperato nei profeti. Non ho sperato nella legge. In Verbum tuum speravi / ho sperato nella tua Parola, / hoc est in adventum tuum / cioè nella tua venuta”. Sono una cosa buona sia i Profeti che i Dieci Comandamenti. Ma non ho sperato in loro, non poggio la mia speranza su di loro, ma sulla Tua parola, cioè sulla Tua presenza che viene e mi porta con sé in braccio. Come un bambino a cui non basta sapere che la mamma c’è. Ma che attende sempre che la mamma arrivi al più presto e lo prenda in braccio portandolo con sé. Conclude Ambrogio pregando: “Che tu venga e prenda in braccio noi peccatori”. Che tu venga, o Signore, a perdonare i nostri peccati e a mettere sulle tue spalle questa pecorella smarrita e affaticata (Nicolino Pompei, Guardate a Lui e sarete raggianti).
…Invocazione allo Spirito Santo
Alla Vergine Maria affidiamo il nostro carissimo amico padre Frederick, che ieri abbiamo avuto il dono di poter rincontrare, e tutta la sua comunità in Uganda; alla Madonna raccomandiamo particolarmente gli amici che ci hanno chiesto di pregare per loro e a Lei chiediamo di intercedere per tutte le intenzioni che Nicolino porta nel suo cuore.
Nel primo mistero della gioia contempliamo l’annuncio dell’Angelo a Maria
Nel saluto dell’angelo colpisce il fatto che egli non rivolge a Maria l’usuale saluto ebraico shalom – la pace sia con te -, ma la formula greca chaîre, che si può tranquillamente tradurre con “ave”, come avviene nella preghiera mariana della Chiesa, composta con parole tratte dall’Annunciazione. Tuttavia è giusto cogliere, a questo punto, il vero significato della parola chaîre: rallegrati! Con questo augurio dell’angelo – possiamo dire – inizia, in senso proprio, il Nuovo Testamento. La parola ricompare nella Notte Santa sulle labbra dell’angelo, che dice ai pastori: “Vi annuncio una grande gioia”. Ricompare in Giovanni – in occasione dell’incontro con il Risorto: “I discepoli gioirono al vedere il Signore”. Nei discorsi di addio in Giovanni appare una teologia della gioia che illumina, per così dire, le profondità di questa parola. “Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia”. La gioia appare, in questi testi, come il dono proprio dello Spirito Santo, come il vero dono del Redentore. Così con il saluto dell’angelo viene fatto echeggiare l’accordo che continuerà poi a risuonare attraverso tutto il tempo della Chiesa e che, per quanto riguarda il suo contenuto, può essere percepito anche nella parola fondamentale con la quale si qualifica l’intero annuncio cristiano: il Vangelo – la Buona Novella (Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù).
Nel secondo mistero della gioia contempliamo la visita di Maria alla cugina Elisabetta
La visita di Maria ad Elisabetta, che deriva come conseguenza dal colloquio tra Gabriele e Maria, porta – ancora prima della nascita – ad un incontro, nello Spirito Santo, tra Gesù e Giovanni, e in questo incontro si rende al contempo evidente anche la correlazione delle loro missioni: Gesù è il più giovane, Colui che viene dopo. Ma è la vicinanza che fa sussultare Giovanni nel grembo materno e colma Elisabetta di Spirito Santo. Così appare oggettivamente, già nei racconti di san Luca sull’annuncio e sulla nascita, ciò che il Battista dirà nel Vangelo di Giovanni: “Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me” (Ibi).
Nel terzo mistero della gioia contempliamo la nascita di Gesù
“Mentre si trovavano in quel luogo [Betlemme], si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio”. Cominciamo il nostro commento dalle ultime parole di questo passo: per loro non c’era posto nell’alloggio. La meditazione, nella fede, di tali parole ha trovato in quest’affermazione un parallelismo interiore con la parola, ricca di contenuto profondo, del Prologo di san Giovanni: “Venne fra i suoi, e i suoi non l’hanno accolto”. Per il Salvatore del mondo, per Colui, in vista del quale tutte le cose sono state create, non c’è posto. “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Colui che è stato crocifisso fuori della porta della città è anche nato fuori della porta della città. Questo deve farci pensare, deve rimandarci al rovesciamento di valori che vi è nella figura di Gesù Cristo, nel suo messaggio. Fin dalla nascita Egli non appartiene a quell’ambiente che, secondo, il mondo, è importante e potente. Ma proprio quest’uomo irrilevante e senza potere si rivela come il veramente Potente, come Colui dal quale, alla fine, dipende tutto. Fa quindi parte del diventare cristiani l’uscire dall’ambito di ciò che tutti pensano e vogliono, dai criteri dominanti, per entrare nella luce della verità del nostro essere e, con questa luce, raggiungere la via giusta (Ibi).
Nel quarto mistero della gioia contempliamo la presentazione di Gesù al Tempio
Nel Libro del Levitico è stabilito che una donna, dopo il parto di un maschio, è impura (cioè esclusa dagli adempimenti liturgici) per sette giorni; l’ottavo giorno il bambino deve essere circonciso e la donna resterà ancora trentatré giorni a casa per purificarsi dal suo sangue. Successivamente ella deve offrire un sacrificio di purificazione, un agnello come olocausto e un colombo o una tortora per il peccato. Le persone povere devono dare soltanto due tortore o due colombi. Maria offrì il sacrificio dei poveri. Luca, il cui Vangelo è pervaso da una teologia dei poveri e della povertà, qui ci fa capire che la famiglia di Gesù era annoverata tra i poveri di Israele; ci fa capire che proprio fra di loro poteva maturare l’adempimento della promessa. Anche qui percepiamo nuovamente che cosa voglia dire: “nato sotto la Legge”; quale significato abbia il fatto che Gesù dica al Battista che ogni giustizia debba essere compiuta. Maria non ha bisogno di essere purificata a seguito del parto di Gesù: questa nascita porta la purificazione del mondo. Ma ella obbedisce alla Legge e serve proprio così all’adempimento delle promesse (Ibi).
Nel quinto mistero della gioia contempliamo il ritrovamento di Gesù nel Tempio
Nel viaggio di ritorno avviene una cosa inaspettata. Gesù non parte con gli altri, ma rimane a Gerusalemme. I suoi genitori si accorgono di questo soltanto alla fine del primo giorno di ritorno del pellegrinaggio. Per loro, evidentemente, era del tutto normale supporre che egli si trovasse da qualche parte nella grande comitiva. Luca usa per essa la parola synodìa – “comunità di cammino” -, il termine tecnico per la carovana. In base alla nostra immagine, forse troppo gretta, della Santa Famiglia, questo fatto stupisce. Ci mostra, però, in modo molto bello, che nella Santa Famiglia libertà e obbedienza erano ben conciliate l’una con l’altra. Il dodicenne era lasciato libero di decidere se mettersi insieme con coetanei e amici e rimanere durante il cammino in loro compagnia. Alla sera, però, lo attendevano i genitori. Il fatto che Egli non fosse presente, non ha più niente a che fare con la libertà dei giovani, ma rimanda ad un altro livello, come si sarebbe reso evidente: rimanda alla missione particolare del Figlio. Per i genitori cominciarono con ciò giornate piene di angoscia e di preoccupazione. L’evangelista ci racconta che solo dopo tre giorni essi ritrovarono Gesù nel Tempio, dove stava seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. I tre giorni sono spiegabili in modo molto concreto: per una giornata Maria e Giuseppe erano andati verso nord, avevano impiegato un’altra giornata per il ritorno, e il terzo giorno finalmente trovarono Gesù. Anche se i tre giorni quindi sono un’indicazione temporale molto realistica, bisogna tuttavia dar ragione a René Laurentin che qui percepisce un accenno sommesso ai tre giorni tra Croce e Risurrezione. Sono giornate di sofferenza a causa dell’assenza di Gesù, giornate di un buio la cui gravità si sente nelle parole della Madre: “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo” (Ibi)