È finita l’era della copisteria giudiziaria
La sostanza della nuova legge già ribattezzata «Mastella» o «sulle intercettazioni», in teoria, è che non aggiunge nulla di nuovo se non delle multe molto ma molto più salate. Ma ciò che sarà vietato pubblicare, ora, come molti non hanno capito, era vietato anche prima. Nel Codice di procedura penale del 1989, in particolare agli articoli 114 e 329, sono scritte nero su bianco le medesime novità che la nuova normativa ora finge d’introdurre. Se andate a sfogliarvi i giornali dell’epoca, appunto all’inizio degli anni Novanta, trovate le stesse grida d’allarme sollevate oggi da giornalisti e magistrati preoccupati: allora come oggi dicevano che il Nuovo Codice era troppo garantista e che la cronaca giudiziaria sarebbe andata in pensione, e pare divertente che a maledire il Nuovo Codice fossero gli stessi magistrati che a breve avrebbero fatto scoppiare Mani pulite, dandone merito appunto anche al Nuovo Codice. Basti che il procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi, all’inaugurazione dell’Anno giudiziario 1992, definiva le nuove norme come «ipergarantiste». Lo stesso facevano i cronisti: c’erano, tra coloro che paventarono il bavaglio, parte di coloro che a breve avrebbero cominciato a riempire paginate di verbali. Capirete che qualcosa non quadra. L’ossatura della legge Mastella potremmo riassumerla così: le indagini preliminari sono segrete, il processo invece è pubblico. Ma questa è ancora l’architrave del rito accusatorio che si è cercato d’introdurre in Italia dal 1989; uno dei relatori del Nuovo Codice, il professor Giandomenico Pisapia, intervistato dallo scrivente nel 1992, la mise così: «Il diritto d’informazione deve trovare limite nei diritti dell’indagato. È il processo che è pubblico, non le indagini. Il Nuovo Codice vieta la divulgazione di atti che sono in gran parte segreti: il segreto delle indagini c’è, e serve a tutelare l’indagato che naturalmente teme che la divulgazione di notizie anticipate possa pregiudicare la sua immagine, immagine che una volta guastata non può essere ripristinata nemmeno in caso di assoluzione». Lo stesso vi ripeterebbero altri relatori del Nuovo Codice (coloro che l’hanno scritto, insomma) come lo ebbe a ripetere il vicepresidente del Csm Giovanni Galloni ancora nel 1992: «La stampa deve intervenire solo a conclusione delle indagini, e l’avviso di garanzia deve essere protetto da segreto istruttorio».
La legge Mastella dice la stessa cosa: «È vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, degli atti di indagine contenuti nel fascicolo del pm o delle investigazioni difensive fino alla conclusione delle indagini preliminari». Nondimeno vietata, ovviamente, è «la documentazione e gli atti relativi a conversazioni anche telefoniche». La vera domanda, se il Codice dunque già diceva questo, è come mai da lustri venga fatto altro. Nessuno ha modificato la lettera originaria del Nuovo Codice, da allora a oggi; l’articolo 114 seguita a dire che «È vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti da segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari»; l’articolo 329 parimenti recita che «Gli atti d’indagine compiuti dal pm e dalla polizia giudiziaria sono coperti da segreto sino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari». Il punto è che a vanificare quanto sopra, negli ultimi 15 anni, sono intervenuti due fattori. Il primo è che i magistrati del Pool di Mani pulite, e i cronisti al seguito, un bel giorno del 1992 decisero che da un certo punto in poi sarebbe valsa un’interpretazione del Nuovo Codice che pareva a loro: e che da allora è valsa per sempre. La data simbolica potrebbe essere il 19 dicembre 1992, cinque giorni dopo il primo avviso di garanzia a Craxi, quando i pm Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo si ritrovarono al Circolo della Stampa di Milano per una tavola rotonda coi giornalisti del «Gruppo di Fiesole», e, appunto, perfezionarono quanto il Procuratore Capo Francesco Saverio Borrelli aveva abbozzato in precedenza. Disse Davigo: «Se una cosa la sappiamo in tre, e io come magistrato sono tenuto al segreto, e l’avvocato è tenuto al segreto perché altrimenti commette un illecito disciplinare, e un terzo, l’imputato, invece non è tenuto al segreto, allora una notizia non è più segreta». Aggiunse Colombo: «Quando il progredire di tutti confligge con l’interesse particolare, io penso che il più delle volte vada sacrificato il secondo al primo». L’avvocato Corso Bovio, legale dell’Ordine dei giornalisti, commentò così: «Per anni ho dovuto sostenere decine di cause per violazione del segreto istruttorio promosse proprio dalla Procura milanese. Il nuovo indirizzo di Borrelli mi auguro che valga in ogni circostanza, non solo per Mani pulite». Di lì in poi la stampa fu inondata di ogni carta possibile e immaginabile. La denuncia per violazione del segreto istruttorio divenne un optional, e, alla peggio, se proprio qualcuno aveva voglia di far cause, la violazione era sanzionata con una multa sino a 258 euro e tutti se ne fregavano. Era vietato, ma se ne fregavano. Ora, semplicemente, non accadrà più perché l’ammenda oscillerà tra 10mila e 100mila euro. È giusto, questo? Secondo me, sì. È giusto come lo è in Paesi più civili del nostro. Se la legge dovesse funzionare, e non svaccasse tipicamente all’italiana, d’ora in poi dovrebbe contare essenzialmente il processo, le sue risultanze, le prove, le sentenze. Le notizie potranno uscire lo stesso, ma non sotto forma di trascrizione integrale di verbale o di intercettazione telefonica, per esempio. Nonostante la nuova legge contenga qualche palese contraddizione semantica, il contenuto delle carte potrà sempre essere riassunto qualora costituisca notizia: ma niente pruriginosi colloqui telefonici privi di rilevanza penale, per capirci. C’è poi un equivoco di fondo che riguarda la seguente parte della nuova legge: «Non possono essere pubblicati gli atti del fascicolo del pm se non dopo la pronuncia della sentenza d’appello». Ecco, questo non significa che non si possano riportare sui giornali i materiali e gli indizi che accusano per esempio Annamaria Franzoni o chiunque altro, ma solo che non sono pubblicabili le carte del pubblico ministero che non assurgono a valore di prova, carte che dunque non vengono prodotte,
esibite: i processi vengono trasmessi in televisione, è quindi evidente che i suoi contenuti potranno essere trascritti e spiegati come sempre. Ciò che non si potrà fare, se la legge funzionerà, è l’estrarre dal cappello carte o intercettazioni telefoniche ininfluenti a carico di indagati che poi magari non verranno neppure rinviati a giudizio, o peggio verranno assolti. Nessuno impedirà di intervistare testi e imputati, se vorranno, ma costituirà vera notizia solo ciò che gli organi giudicanti avranno ammesso a valore probatorio, ciò che insomma reggerà al vaglio del processo, l’arrosto e non il fumus: ti saluto, per capirci, magistrati alla Henry Woodcock, anche perché di certe incredibili spese per le intercettazioni telefoniche verrà investita direttamente la Corte dei conti, o almeno questo dice ancora la nuova legge. Si potrà ancora raccontare ciò che conta, in fin della fiera, senza tuttavia piegare un verbale o una carta a tesi proprie o arbitrarie: più delle indagini conterà il processo, quel dibattimento che in Italia, spesso, dimentichiamo prima ancora che sia cominciato. Più degli indagati conteranno i condannati, come nei Paesi normali. Potrebbe finalmente finire l’era della copisteria giudiziaria, egregi colleghi, ma delle notizie mai.