QUEI GIOVANI IN SAN PIETRO PER CONFESSARSI
Dentro un destino nuovo E potendo ricominciare
Dalle facce, quando se ne vanno, sembrano contenti. Come certi di una speranza ritrovata, più grande di quelle loro oggi promesse
Che quindicimila ragazzi si ritrovino in san Pietro in un giorno di Quaresima per confessarsi col Papa e con duecento sacerdoti probabilmente non è una notizia per i giornali che in questi giorni assediano con falangi di cronisti la Procura di Potenza per raccontare sempre nuovi malinconici scandali di gente famosa – e raccontarci, in fondo, con cronache pignole e abbondanti, che l’Italia è solo quella lì. Che, come ha detto il Papa, «la basilica di San Pietro non sia grande abbastanza» per accogliere tutti quelli che sono venuti, è cosa che passerà forse inosservata nelle redazioni. Eppure la scelta di Benedetto XVI di confessare i ragazzi di Roma alla vigilia di Pasqua, e la risposta di migliaia di adolescenti a gremire San Pietro, è un segno forte, una parola controcorrente cui varrebbe la pena di far caso. Perché, da quando “peccato” è diventata parola impronunciabile, ridicolo retaggio di oscurantismo bigotto, anche la confessione è, almeno nel monopensiero culturalmente corretto, una vecchia penosa cosa senza senso. Sono decenni che si lavora a smantellare l’idea di peccato, trasformandolo in un soggettivo “senso di colpa” da cui è imperativo morale liberarsi in fretta. Sono decenni che ci hanno insegnato a imputare gli errori dei singoli alla società – cioè a tutti, o piuttosto a nessuno. Così che davanti ai delitti più intollerabili ci diciamo che l’assassino è certamente un pazzo – giacché ci siamo dimenticati di quanto l’uomo può essere cattivo. E, attorno all’epicentro di violente esplosioni di un male originario ormai ignorato, a Erba o a Cogne, la gente resta attonita: come è stato possibile, fra noi che siamo brava gente, lavoratori, persone a posto? Il peccato del nostro tempo, disse profeticamente Pio XII, è «avere perso il senso del peccato». Rimossa come un’anticaglia la coscienza di un male originario, che ci abbia tutti intaccati, e educati a pensare a un Dio che “se c’è, non c’entra”, o che se ne deve stare in alto nelle sue celesti sfere, estr aneo ai giorni degli uomini, il peccato ha perso la sua essenza, cioè la lontananza da Dio: per ridursi al massimo a una inosservanza delle leggi degli uomini, in un culto della “legalità” per cui abortire un figlio, poiché è legalmente permesso, è percepito come cosa meno grave che evadere il fisco. Dentro una collettiva smemoratezza di quel male originario da cui nessuno è salvo, sempre nuovi “onesti” si alzano ad annunciare l’urgenza di ripulire la società dal male. Ma sorprendentemente tanta specchiata onestà, tanto ardore moralizzatore non riesce a contagiare dei suoi “valori” i figli. È una sterile, farisaica onestà quella che lampeggia fra i nostri scandali quotidiani. Perché non siamo capaci di salvarci da soli, e nemmeno, in fondo, di perdonarci da soli del male che facciamo e poi neghiamo, ma che molestamente, chissà perché, continua a tornarci in mente. Poi un giovedì di Quaresima il Papa invita i ragazzi di Roma a confessarsi, e quelli vengono a colmare San Pietro. Dalle facce, quando se ne vanno, sembrano contenti. Come certi di una speranza ritrovata, più grande di tutte quelle che si sentono promettere, e a cui in molti non credono più. Perché la speranza vera che manca a molti, è che si viva non per un caso, ma dentro un destino buono. E che si possa, ogni volta, ricominciare.