Cinque domande che interpellano la ragione prima ancora della coscienza
La Chiesa parla di Dio e amministra i sacramenti. Perché ha così a cuore la famiglia fondata sul matrimonio, anche solo civile?
L’uomo da sempre è per l’amore stabile La famiglia non è un’invenzione della Chiesa. Il modello familiare radicato nell’amore di un uomo e di una donna che vivono stabilmente insieme ai propri figli nasce con il sorgere stesso delle civiltà. Oltre a questo, per un credente la famiglia è iscritta da sempre come una spinta nel cuore dell’uomo e per questo i vescovi, nella prime righe della Nota, affermano di «essere custodi di una verità e di una sapienza che traggono le loro origini dal Vangelo». Ma non sono solo le preoccupazione di ordine religioso a indurre i vescovi alla difesa della famiglia e del matrimonio. Esistono ragioni di carattere sociale, motivazioni “laiche”, slegate da qualsiasi appartenenza confessionale. Non a caso nella Nota si spiega che «anche per la società l’esistenza della famiglia è una risorsa insostituibile». La Chiesa, in altre parole, è consapevole che il bene sociale più grande è l’amore duraturo, stabile e fecondo tra un uomo e una donna che trova nel matrimonio, anche solo civile, il suo sigillo. L’amore coniugale è un risorsa straordinaria che allarga i suoi benefici a centri concentrici dalla coppia alla società. Non è un caso se proprio quella fondata sul matrimonio è stata fino ad oggi la forma di famiglia che le nazioni hanno preso in considerazione, adottando negli ultimi secoli leggi in suo favore e in sua difesa.
La ragione si trova guardando alla persona umana. Ciascun uomo, prima di ogni altra cosa, è certamente un figlio di una coppia eterosessuale. Su questo dato si fonda un’intuizione universale: il bene della vita umana e il bene della famiglia fondata sul matrimonio eterosessuale sono saldamente vincolati l’uno all’altro, e ciò per natura, cioè da sempre e dovunque, e non per cultura, cioè a seconda delle usanze, delle etnie, delle latitudini e delle mode. La nostra civiltà, in altre parole, ha sempre ritenuto che esista una ben precisa forma di famiglia, radicata nella sostanza dell’essere umano in quanto tale: perciò tale forma di famiglia viene custodita dagli ordinamenti giuridici delle società e gode del favore del diritto, cioè di un trattamento speciale. Quando si parla di diritti che non dipendono dalla cultura e che non ammettono eccezioni, si parla del cosiddetto diritto naturale. Esso ha precedenza su qualsiasi altra forma di legge e nessuna legge particolare può disconoscerlo o contraddirlo. Questo principio vale tanto per l’uomo religioso quanto per il laico. Un credente ritiene che la sorgente del diritto naturale sia Dio e lo rispetta come intangibile. Ma anche i non credenti riconoscono che c’è un “corpo di diritti” intangibili, perché iscritti nella struttura umana, che non dipendono da condizionamenti esterni all’uomo ma che gli appartengono in quanto persona.
Il matrimonio o un altro tipo di unione, per noi che un tempo siamo stati piccoli, sono la stessa cosa? Figli di un padre e di una madre. Dalla famiglia non si prescinde Dalla parte dei figli. La Nota dei vescovi italiani per prima cosa analizza la questione dei Dico da questa prospettiva. Dal “basso”, per così dire: dallo sguardo dei bambini, che si rivolgono ai genitori da sotto in su – da una prospettiva di attesa fiduciosa. E “dalla parte dei figli”, chi ha un po’ di memoria e di onestà
intellettuale si ricorda che quando si è bambini, il desiderio è quello di avere un padre e una madre che non solo ci amino, ma siano tra loro legati in un volersi bene solido e duraturo, capace di tenere alla prova dei litigi, del dolore, dell’usura del tempo. Quando si è bambini, ciò che si domanda è che tuo padre e tua madre siano alle tue spalle, insieme; come un porto di acque sicure in cui aspettare il momento di prendere il largo da soli. Come un terreno su cui il figlio costruisce le sue fondamenta: se la terra è aperta da incrinature, o add irittura sconvolta da un sussulto di faglie, la casa, sopra, mostra nelle mura le breccia del terremoto, come una ferita. Sono stati scritti, da illustri psicologi, libri per dimostrare come i figli naufraghi famiglie disperse possano comunque crescere sereni; e proprio questo affannarsi a dire che, nonostante tutto, a quella divisione si può sopravvivere indica la consapevolezza, talvolta a parole negata, che comunque il dissolversi della famiglia è per un bambino una prova durissima. Un “patrimonio incalcolabile di sicurezza”, secondo la Nota, viene ai figli dalla famiglia fondata sul matrimonio. E qualcuno obietterà che tante unioni nate da matrimonio poi falliscono. Ma la difficoltà a restare insieme non può fare passare in secondo piano l’importanza fondante della scelta iniziale: l’impegno a una fedeltà, la volontà di un rapporto stabile e in quanto tale riconoscibile dalla comunità che è attorno. Se nemmeno a livello di promessa questo desiderio esiste, è come, invece che gettare fondamenta, stabilire fin dal principio che si vivrà dove capita, in precarie dimore. È il minimalismo degli affetti, il precariato della famiglia; ed è molto difficile crescere in regime di precariato affettivo; difficile affrontare la realtà, incerto come sei sulle forze che hai dietro le spalle. In una cultura in cui sempre più i figli sono oggetti, oggetti da pretendere se
non arrivano, da selezionare se arrivano difettosi, da rivendicare anche quando gli aspiranti genitori sono dello stesso sesso, comunque “cose” che appagano i bisogni affettivi degli adulti, la prospettiva dei vescovi italiani si mette dalla parte dei figli – che sono persone. In uno sguardo che certo è cristiano, nell’attenzione ai diritti dei più deboli. Ma prima di tutto è profondamente umano, in un tempo in cui si va dimenticando cosa è un uomo, e cosa voglia davvero. Marina Corradi
I Dico, di per sé, non vogliono arrecare danno alla famiglia. Perché allora sono una minaccia? Così le nozze. I discriminati Quale che sia l’intenzione» di chi propone i Dico, «l’effetto sarebbe inevitabilmente deleterio per la famiglia». Questo sostengono i vescovi nella Nota ed è chiaro il perché. Se infatti una norma riconosce un valore sociale a coppie di fatto fondate sull’affetto ma non su un patto di impegno stabile (il matrimonio) e attribuisce a tali unioni le prerogative riservate ai coniugi, quella norma reca un danno oggettivo alle famiglie e avvilisce il matrimonio. Discriminati dai Dico sono proprio i coniugi, legati tra loro “a causa” di un vero matrimonio. Costoro hanno ottenuto alcuni diritti per il fatto che hanno assunto alcuni impegni nel matrimonio stesso. Se altre persone ottengono i medesimi diritti senza assumersi i medesimi doveri, allora si sta stabilendo che anche i coniugi, d’ora in avanti, ottengono quei diritti per il solo fatto che coabitano con affetto, e non più perché si sposano. Dunque, il matrimonio in quanto tale viene configurato, dalla nuova situazione giuridica, come un atto inutile, di puro carattere rituale. Conferendo diritti e privilegi ai conviventi non si tolgono diritti e privilegi ai coniugi, ma si toglie di fatto ai diritti e ai privilegi dei coniugi il motivo per cui esistevano, cioè l’istituto del patto matrimoniale.
I politici compiono abitualmente scelte che chiamano in causa la loro coscienza. Come mai stavolta si dice che la coscienza deve essere «formata», cioè confrontata seriamente con il Magistero? Punti fermi comuni non visioni soggettive La coscienza è un dato naturale: fa parte, per così dire, delle “dotazioni di base” di ogni uomo. Questa realtà che accomuna tutti consente a ogni persona di riconoscere ciò che unisce gli esseri umani, le “particelle elementari” di cui è costituita la nostra natura. È quella che il Papa nel messaggio per la Giornata della pace 2007 definiva la «”grammatica” scritta nel cuore dell’uomo dal divino suo Creatore». Su di essa però agiscono di continuo fattori “ambientali”, che la possono alterare. La realtà interpella e sfida la coscienza, ma nessuno può dire di essere munito di tutti i criteri per capire e giudicare ogni fenomeno senza ombre o dubbi. Appare persino ovvio che di fronte a problemi nuovi o questioni complesse occorra farsi aiutare a chiarire
fondamentali, anche imperativi etici che è doveroso onorare». Di fronte a una
legislazione che, invece, «diventa spesso solo compromesso tra diversi interessi» e non «armonia delle libertà», è indispensabile evitare il giudizio soggettivo e rifarsi a punti di riferimento certi e comuni a tutti. Il magistero della Chiesa ricorda i criteri per non perdere di vista questi punti fermi che riguardano «esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili», cioè «il bene integrale della persona», dice la Nota della Congregazione per la dottrina della fede sull’«impegno dei cattolici nella vita pubblica» (2002). La Chiesa, vi si legge, «intende – come è suo proprio compito – istrui re e illuminare la coscienza dei fedeli, soprattutto di quanti si dedicano all’impegno nella vita politica, perché il loro agire sia sempre al servizio della promozione integrale della persona e del bene comune», tornando cioè alla legge naturale inscritta nella coscienza. Formare quest’ultima confrontandola con ciò che la Chiesa insegna è dunque un dovere e una necessità. Francesco Ognibene
Il diritto regolamenta le diverse situazioni umane. Perché nel caso delle coppie di fatto è meglio andare cauti? Lo Stato non ha interesse a tutelare chi non si assume responsabilità Quando si progetta una nuova legge occorre identificare innanzitutto qual è l’esigenza sociale che la rende necessaria. Nel caso delle convivenze, da più parti si invoca da un lato un presunto «vuoto legislativo» e dall’altro la «realtà di fatto» nella quale si troverebbero alcune centinaia di migliaia di coppie. In entrambi i casi, però, le argomentazioni non appaiono fondate. Il diritto, infatti, non esiste per «riempire vuoti» né soprattutto per dare veste giuridica a tutto ciò che esiste. Deve invece trovare la sua intrinseca ragione d’essere nella ricerca della giustizia. Al tempo stesso, prima di approvare una nuova legge, in particolare su temi così sensibili, occorre verificare se non sia possibile raggiungere gli stessi risultati auspicati – la garanzia di diritti individuali – per altra via attraverso regolamenti amministrativi, strumenti del diritto privato, iniziative autonome delle parti. Già oggi infatti sono numerose sia le norme che assegnano un ruolo al convivente (ad esempio nel decidere per il prelievo di organi), sia le tutele previste dalla giurisprudenza (come per il subentro per il contratto d’affitto) sia, infine, le possibilità offerte dal diritto privato (dal testamento alle polizze assicurative). E non spetta forse al convivente stesso – ben prima che allo Stato – preoccuparsi del futuro del proprio compagno? D’altro canto va verificato se esis te un interesse da parte dello Stato a regolamentare alcune situazioni. Ma, nel caso dei conviventi, quale può essere l’interesse della società a istituzionalizzare legami che nascono proprio in contrapposizione con tutto ciò che sa di “contrattualizzazione” del rapporto di coppia, di assunzione di responsabilità verso terzi e verso lo Stato? Non sono forse gli stessi conviventi a rivendicare come scelta di libertà il loro rifiuto del matrimonio, con i diritti e i doveri conseguenti? Perché allora ci si dovrebbe preoccupare di stendere su di loro una “coperta” legislativa per agevolarli nonostante il loro rifiuto?
Per i soggetti che intendono impegnarsi in un progetto di vita familiare stabile, la possibilità di tutelarsi e di ricevere alcune specifiche “protezioni” da parte della comunità è assicurata dall’istituto del matrimonio. Sbagliato sarebbe dunque “inventare” altre tipologie di “piccoli matrimoni” depotenziati nei diritti e soprattutto nei doveri connessi. Vi è infine il caso specifico delle relazioni omosessuali. Queste non possono, nemmeno analogicamente, svolgere quelle funzioni sociali per cui nasce la
famiglia ed esiste il matrimonio – garantire cioé l’ordine delle generazioni – e che impegnano lo Stato alla tutela giuridica di quel vincolo e dei suoi contraenti. Occorre infatti sottolineare come il primo e reale interesse dello Stato attiene alla tutela del bene della procreazione nella famiglia. Francesco Riccardi