DALLA BIOGRAFIA DI PADRE TULLIO FAVALI: “LA SERA USIAMO LE LANTERNE…”
Con padre Carzedda, autore del ‘Pensiero’ con cui è cominciato il notiziario di oggi, padre Tullio Favali del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere), nato a Mantova il 10 dicembre 1946 e ucciso a Mindanao nel ‘barrio’ de La Esperanza vicino a Tulunan l’11 aprile 1985, è un altro missionario martire nelle Filippine. Qualche passaggio di una biografia pubblicata dall’Istituto, aiuta a comprendere non poco delle condizioni in cui operano i missionari come padre Giancarlo Bossi, rapito ieri.
“Il 6 giugno 1981 Tullio Favali diventa sacerdote missionario. Viene subito destinato alla nuova missione che il Pime ha aperto in Papua Nuova Guinea. E’ entusiasta di questa destinazione, contento di essere uno dei primi missionari in una missione nuova.Nell’ottobre dello stesso anno va negli Stati Uniti per studiare l’inglese e vi rimane fino all’estate dell’anno seguente. Tornato in Italia, apprende che ci sono difficoltà per andare in Papua e, nell’attesa, si stabilisce a Sotto il Monte (Bg), nel seminario minore del Pime. Vi rimane un anno: i confratelli lo ricordano semplice e umile, disponibile a tutto, riservato, ma continuamente desideroso di incontri autentici con la gente. Va volentieri in montagna e spesso sale sul vicino monte Canto, a trovare un vecchio eremita che vive solo, lassù, da anni: gli porta formaggio, pane e una bottiglia di vino. Alla fine, stanco di aspettare una partenza che sembra non arrivare mai, prega i superiori di cambiargli destinazione. Dichiara la sua disponibilità a partire per qualsiasi missione, tranne gli Stati Uniti che l’hanno colpito per le dimensioni gigantesche: «Grande il paese, grandi le città – scrive alla sua amica Letizia – e anche la gente, che sembra aver assimilato questo gigantismo, fa tutto in grande». Tullio, invece, vuole una missione fra la gente comune, con la quale si può parlare con semplicità, come ai suoi compaesani di Mantova. Sogna, una missione rurale, i campi, le foreste, il contatto con la natura e i contadini, umili lavoratori della terra. Le difficoltà e le sofferenze non lo spaventano. Viene destinato alle Filippine, dove i missionari del Pime lavorano nei posti più isolati e poveri dell’isola di Mindanao, la meno evangelizzata e con una forte presenza di musulmani e tribali animisti. Il 12 giugno padre Tullio arriva a Tulunan, cittadina definita «capitale del terrore, in quanto alla “guerra per le terre” e alla guerriglia comunista, si aggiungono torture e cannibalismo». E’ qui che Favali è chiamato a far missione, unendosi a padre Peter Geremia: «La zona in cui operiamo è pianeggiante, coltivata a riso, si estende per un raggio di dieci chilometri, fino a raggiungere le colline circostanti, coltivate a granoturco e canna da zucchero. Il terreno appartiene a piccoli agricoltori che riescono a sopravvivere senza grossi introiti da spartire. La gente è prevalentemente impegnata nella campagna. I sistemi di produzione sono rudimentali: non ci sono trattori né macchinari. Sulle colline manca l’irrigazione, per cui il raccolto è condizionato dal tempo. Le strade sono percorribili con la moto. La canonica è in legno, fornita di corrente elettrica, che funziona solo di giorno. Così, la sera, quando ce n’è bisogno, usiamo le lanterne». L’inserimento è difficile soprattutto per la situazione delle Filippine, e in particolare dell’isola di Mindanao: «segnata da crisi economica, forte tensione politica fra opposizione e classe al potere, malcontento generale per il sistema dittatoriale, paura diffusa nella gente comune dovuta alle ispezioni militari a domicilio, con conseguenti arresti di persone sospettate di appartenere ai ribelli o di parteggiare per essi; imprigionamenti, deportazioni e frequenti casi di uccisioni dopo l’arresto, senza previo processo; incolumità dei militari giustizieri, che compiono soprusi con la protezione governativa, a dispetto della legge civile e dei più elementari diritti umani. La Chiesa si fa solidale con tutti questi casi pietosi ed alza la voce di protesta, in difesa degli oppressi. Spesso i poveri e gli indifesi trovano unico appoggio e sostegno nella Chiesa, che si muove tra molte difficoltà e con poco risultato, dovendo affrontare un potere troppo forte e corrotto. Siamo dunque un segno di speranza e promotori della giustizia… C’è bisogno di un risanamento generale, che richiede molto tempo, attraverso un’educazione ai valori umani, ai diritti fondamentali dell’uomo, alla giustizia. Senz’altro questo è uno dei nostri intenti, come preti […]Le zone assegnate al Pime sono povere, prevalentemente rurali, isolate per la difficoltà dei mezzi di trasporto e di comunicazione. Il nostro lavoro pastorale si svolge tra la gente di condizioni più umili e il nostro stile di vita tende a uniformarsi allo stile semplice ed essenziale della gente comune. Per un occidentale ciò costituisce una forte testimonianza evangelica che sarà preziosa per gli stessi filippini… come
scelta di vita e non semplicemente condizione sofferta e subita. Mi accorgo che il prete gioca un ruolo importante e che la gente si aspetta molto da lui. E’ una persona a cui fanno riferimento per ogni bisogno e necessità”.
DALLA BIOGRAFIA DI PADRE TULLIO FAVALI (2): “PADRE, VUOI FARE LA LOTTA CON ME?”
“A Tulunan il clan dei fratelli Manero […] che decidono il buono e il cattivo tempo nella zona, minaccia i “preti comunisti”, parla di “italiani da uccidere”. L’esercito si serve di questi individui per i lavori più sporchi: intimidazioni, torture e soprattutto esecuzioni sommarie e spartizione degli avversari politici. I missionari e i cristiani vivono in questa quotidiana paura, ma la fede permette loro di andare avanti, nonostante tutto, e di stare accanto alla gente, nella quale riscoprono ogni giorno di più il volto di Cristo. In questo contesto padre Peter Geremia, sacerdote italo-americano del Pime, compagno di Tullio, si distingue per l’incisività dell’azione e la capacità di rendere penetrante il suo messaggio. Per questo dà fastidio. Intanto aumentano gli uccisi e gli scomparsi, ma a cavallo della sua Honda, Tullio si reca assiduo e sorridente, sempre disponibile e pronto ad aiutare, in ogni villaggio a lui affidato per il lavoro pastorale. La settimana santa del 1985 trascorre ricca di celebrazioni e incontri, a cui i cristiani partecipano con devozione. Finché l’11 aprile, un gruppo paramilitare si raduna sulla strada principale di La Speranza, una borgata di Tulunan. Sono una cinquantina, armati fino ai denti e guidati dagli stessi Manero, che abitano proprio lì. Anche quel giorno, come loro abitudine, per un paio d’ore gridano e schiamazzano indisturbati. Bevono, anche, come è usuale nei loro raduni. Poi appendono un manifesto con un elenco di nomi: sono quelli delle persone accusate, da loro, di sostenere la guerriglia comunista. Fra gli altri c’è anche il nome di padre Geremia, compagno di missione di padre Tullio, e di un certo Rufino Robles, che si trova a passare per la via proprio in quel a cura di nuovo.fidesvita.org
momento. Gli sparano e Robles cerca rifugio in una casa vicina. La marmaglia armata circonda la casa, urlando e sparando in aria. Qualcuno chiede aiuto in parrocchia con un biglietto: «Padre, aiuto, a La Speranza». Padre Tullio è appena rientrato da una festa di battesimo, è solo perché padre Geremia è andato a visitare altri barrios. Senza pensarci un attimo, inforca la moto e corre sul posto. Riesce a entrare in casa, esamina per pochi istanti il ferito. Poi, all’improvviso, si sente una nuova sparatoria all’esterno. Tullio si affaccia alla finestra e vede uno dei Manero appiccare il fuoco alla sua moto. Esce allora di casa, anche se gli altri cercano di trattenerlo: «A me non faranno niente», dice convinto. Edilberto Manero lo accoglie in strada con una risata: «Padre – urla – vuoi fare la lotta con me?». Tullio alza entrambe le braccia con le palme protese in segno di resa e di pace. Inerme, alla ricerca del dialogo, come ha sempre fatto in tutta la sua vita, il sacerdote si avvia verso l’uomo con il fucile spianato. Edilberto lo guarda fisso, poi gli spara al torace. Tullio cade sulle ginocchia, l’altro spara ancora. Il missionario è già morto, ma gli altri continuano a sparargli addosso, ridendo e fischiando, calpestandolo ripetutamente, cantando e ballando. Al tramonto p. Geremia torna a casa. Alcuni fedeli lo supplicano di cambiare strada senza spiegargli il motivo, ma sanno bene che le milizie paramilitari cercavano proprio lui per eseguire la loro precisa sentenza di morte. In parrocchia trova il biglietto con la richiesta d’aiuto, ma Tullio non c’è. Corre allora alla stazione della polizia cercando di trascinare con sé due poliziotti anch’essi terrorizzati. Mezz’ora dopo raggiunge il corpo massacrato del confratello, nella strada deserta. Si inginocchia e comincia a pregare piangendo. Benché i Manero, fuori di sé, abbiano ucciso Tullio per dare una lezione ai preti e per intimidire i cristiani dell’intera diocesi di Kidapawan, sono tremila le persone che partecipano ai funerali di Tullio Favali”.